Perché di loro memoria rimanga
AFFETTUOSO RICORDO DI CARE FIGURE SCOMPARSE, PERCHE’ DI LORO MEMORIA RIMANGA
Al Tadol: era costui da Coiromonte; scendeva a Gignese per piccoli lavori saltuari — taglio di legna, fienagione ecc. —. Si accontentava di poco: sovente chiedeva solo pane e minestra. Era schivo, un po’ misantropo, quieto. Mangiava fuori dell’uscio su una tavola di pietra o su una panchina per non disturbare; vestiva abiti che gli davano in compenso del lavoro che offriva. Amava i bambini i quali lo avvicinavano senza paura. Correvano gli anni ’25-’35. Un giorno d’estate si riposò ai piedi di un grande faggio in co’ del ponte alla Madonna del Sasso; era una giornata calda e proprio ai piedi del grande faggio morì così, solo, in silenzio, senza disturbare nessuno, con gli occhi fissi al cielo azzurro. Noi bambini piangemmo un amico buono.
Al Tass: nativo di Sovazza frequentava Gignese per lavori pesanti presso il “Guverno”; era un gigante dai piedi e mani enormi e divorava in un baleno quantità incredibili di pane e polenta. La voce terribile, i gesti burberi era il terrore dei bambini che lo scrutavano da lontano perché per loro era impossibile confidenza alcuna; al suo apparire era un fuggi-fuggi generale. Faceva da contraltare al coetaneo e mite Tadol. Dopo il 1930 non lo si vide più dalle nostre parti; rimase il detto, ancora oggi in vigore, per chi mangi forte: “mangi come il Tass”!
Al Gervason: era Vintellettuale del paese, classe 1888 ; sapeva il francese per essere stato a lavorare “a Parigi in Francia”, diceva lui! Fu panettiere con negozio in via centrale, poi chafTeur all’Hotel Alpino, maggiordomo e uomo di fiducia in casa De Munier. Sapeva suonare egregiamente mandolino e chitarra. Conosceva l’arte del guarire e mettere mettere a posto slogature e lussazioni specie quelle femminili; faceva a posto slogature e lussazioni specie quelle femminili; faceva uso di impiastri e unguenti solo a lui noti, in cui si dice avesse larga parte il puzzolente grasso di tasso. Leggeva giornali e riviste e si piccava di conoscere tutto lo scibile umano così che era facile alla sentenza, ai grandi giudizi e coraggiose previsioni che non sempre si avveravano. Forte giocatore di carte, famose erano le sue arrabbiature quando perdeva allo scopone. Viveva con filosofia e gli ultimi anni li passò, come sempre, solo, nella stanza al “Crèe” quella con il caratteristico sevizio a sbalzo sulla ruga, ancor oggi conservato. Negli ultimi anni teneva orticello dal quale cavava di che campare e in una capanna di lamiere alla Pii aveva due capre; d’inverno si ammantava con solennità di un gran mantello nero che scendeva sino ai piedi, dal quale spuntavano solo le scarpe, una testa pelata pelata e due occhi indagatori. Morì in una casa di riposo nel 1978.
La Gin da la Deodata: correvano gli anni Trenta e le funzioni in Chiesa spesse volte erano allietate da una voce bellissima: quella della Gin. Certe Ave Maria soavissime, certi potenti Magnificat per non parlare di sublimi Tedeum uscivano dalla sua ugola d’oro: era la Callas di quei tempi!Ma a volte, pur presente, taceva ostinatamente e invano don Prandi dall’altare si voltava implorando l’acuto dalla Gin: ma se non era il giorno diritto niente da fare, la Gin non cantava!E i giorni diritti non erano molti! Era generosa, a volte espansiva, altre chiusa; forse, chissà, il canto e la musica le ricordavano illusioni o delusioni di amori impossibili. L’ultima volta che udimmo la sua voce noi si era ragazzini seduti su un muretto giù al Crèe: era la voce di una donna disperata aiutata da mani pietose che l’aiutavano a salire sulla grande sempre lucida macchina del Pandin che l’avrebbe condotta a Novara in un luogo ove libertà è tolta! Le trepida mano materna si posò sulle nostre spalle e disse: “Andiamo a casa, non sono spettacoli per voi bambini”.
Al Ginaraal: piccolo, rotondetto, iroso, eppure buono, era il bersaglio di scherzi da parte un po’ di tutti. Lo ricordiamo a cavallo degli anni ’30; era il facchino ufficiale con tanto di cappello unto e bisunto che tuttavia portava con sussiego. Chi scendeva alla stazione della “funicolare” — lontana un chilometro dal paese — chiedeva di lui per portare le valigie. Quante volte simulando essere un villeggiante qualcuno lo caricava di una valigia piena di sassi con l’incombenza di portarla alla locanda tale; arrivava a destinazione un’ora dopo, sfinito, trafelato bestemmiando per la maledetta valigia. Scoperto l’inganno si arrabbiava moltissimo e poi si acquetava davanti ad un calice di vino offerto a riparazione. Tremende sbornie erano per lui abituali; dormiva, anche d’inverno, dentro una cassapanca nella cascina, che da lui prese il nome, giù alle “Baracche”‘. La memoria ci tradisce per poter dire se lì fu trovato morto un giorno o l’altro, ovvero se finì ospite di qualche ospizio.
Al Geni: classe 1908, frequentò con successo le prime due classi elementari e, dicono i suoi coscritti, era intelligente. Poi una “febbre cattiva” (meningite) bloccò le sue facoltà mentali e più che vivere vegetò sino all’anno 1977. Portava il pesante crocefisso in testa alle processioni e ai funerali con sussiego; i bambini, un po’ cattivi, ne facevano il loro spasso, ma lui non si arrabbiava mai e al massimo faceva finta di rincorrerli. Aveva la manìa dei chiodi delle sue scarpe e li contava mille volte al giorno fermandosi nelle strade con una gamba giù e una su, una scarpa in mano per la conta dei chiodi. Si pavoneggiava con le ragazze del paese ogni volta che si radeva la barba, il che succedeva di rado. Madre natura lo dotò di uno strano sesto senso: sentiva il cambiare del tempo. In giornate bellissime se per strada il Geni cantava si poteva star sicuri che entro due giorni il tempo cambiava. E per ogni tipo di tempo aveva un certo tipo di canto. Era il « segnatempo » del paese! Abitava nella rustica casetta davanti al cimitero, casetta costruita con le proprie mani da don Tagini di Nocco che per questa opera di altruismo ebbe il prestigioso premio “la notte santa” istituita da Angelo Motta, panettoni.
Al Penco: era chiamato anche il Pinco; sempre ignorammo nome e cognome; apparve verso il 1928 a Gignese, si dice, proveniente dal Pavese. Trovò lavoro come uomo tuttofare dal Ginisìn e dalla Manetta giù ai Molini, ove visse fin verso il 1940. Stava mesi senza farsi vedere in paese, lavorava sodo, ma spesse volte veniva preso dal demone del bere e allora erano giorni e giorni di vagabondaggio nelle osterie locali. Amava sedere serate intere sulla panchina di piazza Runchèe (quella che si vede ancor oggi) e suonava il mandolino molto bene. Quando al « Ricreatorio » vi era qualche recita mai mancava ed era spettatore attento, quasi estasiato. Raramente parlava di sé e del suo passato: solo una volta si confidò e disse che era figlio negletto di una grande attrice il cui nome volle tenere segreto, e che fu allevato in un collegio di lusso; e non volle aggiungere altro. Amava leggere libri e giornali ed era colto, fine, educato anche se un po’ introverso. Non si seppe più nulla di lui: scomparve in silenzio! Su di una trave all’ingresso della stalla dei “Molini” a matita, ha lasciato scritto — e ancora oggi si può leggere —: “Penco 1937”.
La sciura Angiulina: detta anche la “cumàa”: piccola, esile, due occhietti chiari, vivacissimi, intelligenti e furbi; una chioma sempre arruffata, il vestito dimesso, le calze che cascavano entro due scarpe eternamente scancagnate. Il tutto non propriamente da bucato, almeno così sembrava! E’ stata per mezzo secolo e più la “levatrice” dei nostri paesi. Come non ricordarla con simpatia e riconoscenza? Aiutò le nostre mamme, aiutò noi a “veder la luce”. Dicono che era di modi bruschi e decisi nel suo compito ma che era brava e “sapeva la sua arte”. Amava dire: “Ne ho visti mille e mille nella mia vita ranocchietti prima, poi fanciulli e infine uomini e donne”.Il marito teneva osteria al “Riposo” (è quella bicocca ancora esistente davanti al garage Ferri). Aveva un figlio, l’Oreste, che fu assessore comunale, morto a Meina, ufficiale postale, nel 1970. Era larga di consigli alle mamme di come allevare i figli, come togliere i vermi, cosa fare per alleviare loro il mal di denti o di pancia. Rimase sulla breccia sino all’ultimo facendosi sempre più minuta e leggera lei già così piccola e fragile. A tutti è nota l’avventura capitatale nel ’47; il medico condotto di allora passò una volta d’inverno con premura a prelevarla per una chiamata urgente; l’amico Matteo la sistemò sul seggiolino della potente “Guzzi 500” e partì. All’arrivo a Carpugnino la signora Angiolina non c’era più. Fu persa per strada! Risultò infatti che alla curva di Locco, forse o senza forse presa un po’ alla Bordino, la povera donna era finita in una scarpata ove fu trovata immersa nella neve, sull’orlo del congelamento, ma viva e quasi divertita! Lasciò questa terra e i suoi mille “ranocchietti” nel 1960.
Testi e foto tratti dal libro “Leggende, memorie storiche, aspetti passati e attuali di un piccolo Comune di montagna” Agosto 1981