Tradizione e folklore

Le considerazioni svolte sul dialetto valgono anche per quanto riguarda le altre forme di una cultura in via d’estinzione. L’attuale interesse per le ricerche e gli studi sul mondo contadino deriva anche, certe mode o languori sentimentali a parte, dalla consapevolezza che l’ultima generazione ad aver conosciuto e vissuto quella particolare realtà sociale e culturale si sta esaurendo. Senza più testimoni, la ricostruzione della civiltà rurale finisce per assumere gli aspetti e le tecniche di una ricerca archeologica. Ovviamente nessuno si auspica un ritorno a forme di vita o di economia come quelle sin qui descritte, e il cui superamento costituisce il coronamento di secoli di tenace lavoro e sacrificio. L’igiene, l’istruzione, il benessere, la salute, la giustizia, sono ormai così conna­turati al nostro modo di pensare, che solo chiudendo gli occhi di fronte all’evidenza si può rimpiangere il passato. D’altra parte, quando si parla del “buon tempo antico”non ci si riferisce certo alla miseria, all’analfabetismo, alle malattie incurabili, alla estenuante fatica dei nostri vecchi; se c’è una nostalgia, questa è per il tipo o qualità dei rapporti, di saggezza, di legami che univano e caratterizzavano la vita del paese e, forse, una diversa percezione o dimensione del tempo, scandito sul ritmo delle stagioni e della natura.

In questo senso la rievocazione del nostro passato non è tanto lezione di storia, quanto il supporto alla consapevolezza che l’uomo può e dovrebbe avere di se stesso. Si chiarisce così anche il significato della parola culturaintesa non già come abbondanza di erudiziene, ma come complesso di valori che muovono la vita e le conferiscono significato. L’alterazione della struttura edilizia del paese, l’abbandono del centro storico, sono le spie di un disamore che nessuna legge urbanistica potrà mutare. Oggi si risiede ma non si vive nel proprio paese, nella casa degli avi, costruita secondo antichi schemi nella forma a stallo. Stalli che distinguevano una famiglia dall’altra, spesso con quei soprannomi che l’arguzia paesana o le caratteristiche di uno dei componenti suggeriva: Ostin, Nasìn, Manetta, dell’olio, Muss, Murts, dumper, Deron, Ross, Gnoch, Goss, CavourSciur Angiul, Masè, drundìt…; stalli con l’immancabile pozzo e l’affresco votivo. Ai tempi del trenino, il turista che cercava il facchino per il trasporto dei bagagli al Panorama poteva sentirsi rispondere: —Vada alla casa del Governo e chieda del Generale —!

Con la sola eccezione di Sovazza, in nessuno dei nostri paesi si ha memoria di costumi tradizionali. Nelle vecchie fotografie le donne appaiono per lo più vestite di nero; qualche vocabolo  rimastoci ricorda: gipunìn “maglia”; pedàgn “gonna”; sutantn “sottoveste”; scusai “grembiule”, e l’immancabile panòt attorno al capo. I rapporti famigliari erano caratterizzati dal voi, col quale i figli si rivolgevano ai genitori, oppure scambiato tra i genitori stessi. Le case erano piene di ragazzi. Oltre ai già numerosi figli, nel secolo scorso, frequenti erano gli orfanelli del cosi detto baliatico che veni­vano dati dall’ospedale, generalmente quello di Novara, in custodia alle famiglie che ne facevano richiesta, dietro corrispettivo di 5 franchi. Il baliatico durava in media 6 anni, ma molto spesso poi le famiglie non avevano il coraggio di abbandonare quei fanciulli più poveri di loro; un piatto di minestra in meno non le avrebbe certo arricchite, e poi, “la povertà è come la parentela”. Nei registri parrocchiali, sotto l’indicazione — Elenco dei figli esposti degli Ospedali, dati in baliatico in questo Comune —, nel ventennio 1860-1880, sono elencati 31 nominativi, per la maggior parte bambine.

Dalle carte d’archivio emergono talvolta interessanti annotazioni su vicende personali: nello Stato d’anime di don Guzzi troviamo una Giovanna Ambrosini, “morta a 19 anni non compiuti. Pura di mente e di cuore, pietosa, giusta, (è la morte preziosissima!!!… Riposa in pace, o ottima Giovannina!”.

Un Giacomo Ambrosini figura ritirato al Cottolengo di Torino.

Righini Bartòlomeo, “veterano delle patrie battaglie, fu valoroso sui campi di S. Martino”.

Il sig. Enrico Molinari conserva gelosamente un Passaporto per l’Interno del 1870, e l’attestato di una Medaglia Francese Commemorativa rilasciata a Giovanni Dotti, del 2° Reggimento Granatieri di Sardegna, per la Campagna d’Italia del 1859.

La semplicità del cibo aveva come contorno la fame; “a baia la volp” “abbaia la volpe”, si diceva quando lo stomaco reclamava. “Pulenta e patina” stava a significare la monotonia di un cibo che poteva essere solido come la polenta o più morbido come la polentina, ma di uso quotidiano. Il “secondo” non variava di molto: patate, “t,riful”formaggio o frittata, servito in un’unica padella dalla quale tutti a turno si servivano, attenti a non perdere la puciàaNella buona stagione un po’ di verdura o ortaggi, ma anche insalata mata, grisòn, varzòlerbe tornate di moda. La lavorazione del latte forniva, ieri come oggi, altri preziosi alimenti: dal latte munto si levava con il cazii “mestolo” la grama “panna” affiorata durante la notte, e si metteva da parte. Quando ce n’era quantità sufficiente si versava nella burlòria “zangola”. Il lac’ grimà “scremato” veniva versato nella caudera, grosso caldare di rame stagnato, che veniva appesa al camino e riscaldato con l’aggiunta del kuac “caglio”.

Il kuac era di solito lo stomaco del capretto, essiccato.

Nel giro di pochi minuti si formava la massa biancastra della cagliata, sommersa dal siero verde azzurrino: l’asrua. La cagliata veniva quindi pressata nelle forme di legno, mentre il siero veniva ulteriormente riscaldato; filtrato in una pezza di tela, si raccoglieva una piccola massa biancastra: la mascarpasimile alla ricotta. Infine, con la bollitura del siero, si formavano sulla superficie dei grumi chiamati fior.

Prima dell’avvento delle lavatrici, e quando ancora l’acqua nelle case era un lusso, la lavatura della biancheria costituiva un aggravio di fatica per le donne. Se molti ricordano i viaggi col gerlo o con la cesta piena di panni al lavatoio pubblico della Rinàasolo i più anziani conservano memoria del bucato grosso di un tempo: la biìgàa.

Ogni 15 giorni-1 mese le lenzuola di canapa e la biancheria veni­vano raccolte in grandi cesti. In una giornata di tempo buono, alla fontana o al fiume si procedeva ad un lavaggio preliminare. Si montava quindi su una panca o altro rialzo una tinozza di legno (zévar), nella quale veniva pigiata la biancheria.

A parte si faceva bollire una caudera d’acqua con cenere bianca di castagno. Si stendeva una tela sulla tinozza e vi si versava sopra l’acqua con la cenere. Quando da un foro sottostante cominciava ad uscire acqua calda si tappava ‘I zevar e si continuava a versare finché la biancheria era sommersa e la tela galleggiava. Si lasciava così a bagno tutta la notte, e l’indomani si toglieva la tela e il tappo. Veniva approntata un’altra caudera di acqua calda che si versava poi nella tinozza, fino a quando, scomparso lo smoi, l’acqua usciva limpida. Infine si risciacquava la bugàa nell’acqua fredda, e si stendeva ad asciugare, poiché, come si diceva:

                       La  bugàa  d’la  cuca  l’è bionca quan l’è sucia.

Deboli ed inermi contro tutto e tutti, i nostri vecchi trovavano il mistero appena fuori l’uscio di casa, mentre l’ingenuità della loro fede traduceva il sacro in rimedi contro il male. Si aspettavano che le Rotazioni proteggessero il raccolto, ed alzavano ai crocicchi dei sentieri capellette votive con il nome e la motivazione: “fece fare per sua divozione”Invocavano la protezione dei santi ritenuti più efficaci come, per i temporali, “Sant’Agnese e san Simon, vardén dal le san e dal trón”All’osteria invece si ammiccava:
               “E tri scusai na z
òcula, la roca sonza I fus, e la gibèrna ròta cum trontasés partus” ;
o si ironizzava negli indovinelli:
                              “Na mòniga tacà su, e cink frai che gh pelan al cii” (La rocca e le dita che filano la lana).

I ragazzi, quando non andavano per nidi o a pianta farnit, giocavano a “ciapas, a scùndas, a cavalina, a sberla, a la lipa”Facevano la conta per stabilire a chi toccasse “sta sóta“:

                             Fin, pirulin,

                       cùs l’è voi e   cus l’è pin.
                      Pin pin d’oru, lerillerancia,
                      questi giochi si fanno in Francia;
                      pirulerutì, pirulerumì,

                     a tsè propi sóta ti.

     I più grandi prendevano “per il naso” i più piccoli:

                     Oc bel, so fradel;
                     
urógia bela, la so surèla;
                     la gèsa di frai e I campanìn di matai.
 

Se si trovava qualche sprovveduto si poteva tentare di mandarlo in un negozio a farsi dare “mes kilu d mus pista; e se l’è mia pista, fatal pista ben”! (mùs è il muso, la faccia).

Arrivava la sera:  una povera preghiera orecchiata e rappezzata,

prima d’infilarsi nella bisaca di foglie di faggio (d’inverno scaldata con la pricòta, e di spegnere l’acetilene):

Aqua santa che mi bagna, Gesù Crisi che mi cumpagna; che m’cumpagna in buna via, per salvar l’anima mia.

Bruta bestia va da lì, Spirit Sant vegnì cum mi. Sum di Dio e sum di Sant, l’anima a Dio la racumand.

La racumand in brasc a san Giuan, che faga mai più ingan. Maria Vergine dell’alba, la fiurìs quan l’è la palma.

La palma la fiurìs, Maria Vergine la parturìs. La parturìs cum l’oli sani; chi la dirà la noe ad Nadal

pardunarà ses mila pica murtai.

Testi e foto tratti dal libro “Leggende, memorie storiche, aspetti passati e attuali di un piccolo Comune di montagna” Agosto 1981